a domanda ... rispondo

In questa pagina del mio sito, simulando una sorta di intervista, ho riportato alcune delle domande particolari che i pazienti mi pongono sull'argomento "melanoma".



D: "Ho letto che sempre più frequentemente vengono scoperti melanomi di dimensioni molto piccole, addirittura di qualche millimetro, che all'aspetto sembrano piccoli nei comuni; come si fa a riconoscerli?".

Chi si occupa di Oncologia cutanea ha esperienza di melanomi-baby, talora di dimensioni veramente ridotte, cioè ben al di sotto della fatidica soglia dei 6 mm che fino a qualche tempo fa sembrava un criterio dirimente di una certa importanza; in qualche caso si tratta addirittura di melanomi di appena 2-3 mm  di diametro, solitamente comparsi all'improvviso laddove non vi era neppure un nevo preesistente, dall'aspetto macroscopico apparentemente normale, spesso monocromatici anche se solitamente di un colore molto più accentuato degli altri nevi del paziente, e persino abbastanza regolari nel disegno bordale. Sicuramente sono melanomi che pongono notevoli difficoltà diagnostiche cliniche, anche se un aiuto consistente può venire dalla videodermoscopia ad alta risoluzione.

L'incidenza dei melanomi-baby è varia anche se comunque sempre relativamente bassa nelle varie casistiche; personalmente io mi sono imbattuto in una dozzina di casi di melanomi di piccolissime dimensioni da quando mi occupo di tumori della pelle, cioè in oltre 40 anni, rispetto ai circa 150 casi di melanomi da me complessivamente diagnosticati nello stesso periodo. Ma c'è ad esempio un interessante studio dell'Istituto Tumori di Milano che ha messo in evidenza come da una metanalisi di tutti i melanomi da loro osservati tra il 1977 ed il 2002 (complessivamente circa un migliaio di casi) ben il 20% erano melanomi di dimensioni inferiori a 6 mm ed addirittura il 2,5% dei casi non raggiungeva neppure i 3 mm! 

D: "Ho letto con interesse nella pagina del suo sito dedicata alla storia naturale dei tumori il meccanismo grazie al quale la cellula danneggiata dai raggi u.v. riesce a riparare il danno del suo DNA, sempre che questo danno non sia stato così grave da portare a morte la cellula stessa. La sua spiegazione, semplice ma efficace, mi è stata di grande aiuto per capire bene il meccanismo; perché allora il sole continua ad essere additato come uno dei principali responsabili del melanoma?".

La spiegazione sulle pagine del mio sito doveva necessariamente essere semplice per rendere comprensibile un argomento che in realtà è assai più complesso di quanto si possa immaginare. D'altra parte se mi fossi messo a raccontare in dettaglio tutti i meccanismi implicati nella risposta al danno da raggi ultravioletti nessuno mi avrebbe letto.

Che la luce ultravioletta sia fonte di danno diretto sul DNA delle nostre cellule è un dato scientifico acquisito ormai da moltissimo tempo: sappiamo infatti che la radiazione u.v. induce nella cellula veleni micidiali quali i dimeri di pirimidina ciclobutano (CPD) e i fotoprodotti 6-4 (6-4PP). In conseguenza di siffatto danno la cellula può risultarne tanto danneggiata da morire, oppure può sopravvivere ma allora deve rimediare al danno prima che possa riprodursi replicando l'errore nelle cellule discendenti.

Il meccanismo di "riparazione genetica" da me illustrato con estrema semplificazione è quello che consente alla DNA polimerasi della cellula di tagliar via il pezzetto di DNA danneggiato e di sostituirlo con la copia prelevata dall'altra elica gemella e sana di DNA. In pratica è come quando sul PC cancelliamo una frase sbagliata e con un meccanismo di copia-incolla inseriamo nel testo la frase corretta prelevata da un testo di riserva.

Ma questo non è l'unico meccanismo di riparazione del danno da u.v. che si sta studiando. Durante la nostra evoluzione noi mammiferi abbiamo perduto la fotoliasi, un meccanismo questa volta "enzimatico" di risposta al danno da raggi u.v. che stanno studiando ad esempio i ricercatori dell'Erasmus University Medical Center di Rotterdam. Grazie agli enzimi della fotoliasi-CPD (che utilizzano la luce stessa come fonte energetica) attivati sperimentalmente su topi transgenici si è ottenuta una progenie di topi assai più resistenti ai danni da u.v. e con una cute assolutamente in grado di ripararli. Ovviamente le ricerche mirano anche a verificare se sia possibile ripristinare tutto o in parte questo meccanismo di difesa ai fini di una maggiore protezione dal fotodanneggiamento.

D: "Nelle pagine del suo sito viene più volte sottolineato il peso della familiarità nel melanoma e l'attenzione che deve essere prestata nell'esaminare la cute dei familiari consanguinei di un paziente operato di melanoma. La familiarità è proprio così importante?"

Fino ad alcuni decenni fa, quando la Genetica muoveva ancora timidi passi e non si conoscevano test predittivi di Oncologia molecolare, pensavamo che la familiarità osservata in certi casi di melanoma (il 10% circa di pazienti con melanoma presenta, se attentamente indagata, medesima patologia in altri familiari) fosse dovuta alla condivisione familiare di analoghe abitudini di vita e di esposizione al sole.

Oggi sappiamo che il gene responsabile del melanoma ereditario, denominato p16 (ma anche MTS1, INK4A, CDKN2, CDKN2A) è stato identificato e localizzato nel cromosoma 9. Si tratta di un gene oncosoppressore, cioè un gene la cui mancanza o difetto favorisce lo sviluppo del tumore. Dal 20 al 60% delle famiglie in cui è ricorrente il melanoma è presente una mutazione del p16. Questo tuttavia significa anche che nel restante 40-80% dello stesso tipo di famiglie deve essere compromesso il funzionamento di qualche altro gene. Ci stiamo addentrando su un terreno speculativo ancora tutto da esplorare. Sicuramente il corredo genetico di un individuo è direttamente o indirettamente corresponsabile nella malattia da melanoma o perché lo rende semplicemente più vulnerabile al danno solare, oppure perché gli ha fatto ereditare un qualche difetto nei meccanismi di protezione, soppressione o sviluppo del tumore. Secondo me il corredo genetico è probabilmente più importante del sole stesso nel divenire naturale della malattia da melanoma. Prendiamo ad esempio gli studi che la dott.ssa Landi sta portando avanti al National Cancer Institute di Bethesda, nel Maryland, in collaborazione con l'ospedale Bufalini di Cesena: la ricercatrice sta approfondendo le conoscenze sul gene ricettore melanocortin-1 (MC1R), responsabile delle variazioni del colore della pelle, un gene che viene ereditato parte dal padre e parte dalla madre e che è responsabile di alcune peculiarità della cute come ad esempio il fototipo chiaro e le lentiggini. Sapevamo già che le radiazioni u.v. vanno a indurre mutazioni a carico dei geni BRAF, responsabili del cancro della pelle. La Landi, che sta studiando la capacità del gene MC1R di indurre in certi soggetti una particolare forma di melanoma pur senza essere stati esposti al sole, ipotizza una interconnessione, in verità ancora tutta da dimostrare, fra geni BRAF e MC1R e tutto ciò aprirebbe scenari speculativi fino ad ieri inimmaginabili.

D: "Lei ha più volte ricordato come la differenza di spessore nei melanomi significhi solitamente differenza prognostica, nel senso che una volta raggiunto un determinato spessore Breslow (0,75-1 mm, se non sbaglio) il melanoma acquisisce capacità di produrre grandi quantità di citoadesine della classe ICAM-1 e di fattori di angiogenesi denominati TAF e quindi acquisisce aggressività metastatica. Non basterebbe allora bloccare la produzione di siffatte molecole?"

Per ovvie ragioni didattiche e di semplificazione ho dovuto schematizzare questi concetti nella forma in cui sono esposti nelle pagine del mio sito dedicate alla malattia da melanoma. Ma le cose in realtà sono molto più complesse.

E' vero che la capacità di sviluppo delle metastasi di melanoma è effettivamente subordinata, come del resto accade per molti altri tipi di tumori, alla capacità di stimolare un'adeguata rete vascolare neoformata che assicuri nutrimento alla massa tumorale in rapido accrescimento. Da oltre 2 decenni molti Autori, sulla scia degli studi di Folkmann, stanno testando varie sostanze in funzione di farmaci anti-TAF cioè ad attività anti-angiogenetica per combattere il cancro metastatico. Il vecchio e per certi versi famigerato talidomide, ad esempio, è una delle più efficaci fra queste sostanze. Risultati utili, anche se temporanei, sono segnalati da più parti, ma evidentemente i fattori di accrescimento tumorale da bloccare nel melanoma metastatico non sono solo questi. E' per esempio recente (luglio 2006) la scoperta da parte di un gruppo di ricercatori della Northwestern University che molte cellule di melanoma metastatico producono la proteina Nodal che è un potente fattore di crescita delle cellule embrionali e che è assente nella cute sana. Anche in questo caso la prospettiva di individuare sostanze capaci di inibire l'espressione di tale proteina offrirebbe enormi vantaggi terapeutici. In verità già da un paio di anni i ricercatori del Whitehead Institute for Biomedical Research di Cambridge in Usa hanno isolato un gene, battezzato gene lumacone perché quando viene disattivato nel moscerino della frutta gli conferisce un bizzarro movimento al rallentatore, capace di imprimere alle cellule metastatiche di melanoma quella aggressività rapida e senza pari che rende così letale questo tipo di tumore rispetto a molti altri. Questo gene regola nella vita embrionale i meccanismi di migrazione e di accrescimento delle cellule della cresta neurale, per poi spegnersi fisiologicamente. Nelle cellule di melanoma in rapida metastatizzazione questo gene risulta sempre attivato. Gli stessi ricercatori del Whitehead Institute for Biomedical Research, coordinati da Robert Weinberg, hanno inoltre messo in evidenza come la metastatizzazione del melanoma avvenga nel tessuto nervoso ancor prima della diffusione attraverso il letto vascolare grazie al gene Slug attivato dalle stesse cellule. Come si vede, i meccanismi genetici che regolano l'avvio della metastatizzazione e dell'aggressività clinica nella malattia da melanoma sono molteplici e sicuramente ancora solo in parte conosciuti.

D: "Il vaccino contro il melanoma: assistiamo ad un continuo fiorire di notizie e di promesse, ma come stanno in realtà le cose?".

Come ho avuto modo di ribadire tante e tante volte, nei miei lavori, sul mio sito, nel mio corso di lezioni sul melanoma ed in tante altre occasioni, il rapporto immunità/cancro è la strada sulla quale combatteremo la battaglia definitiva e vincente, soprattutto per quanto riguarda i tumori immunomodulati come il melanoma. La svolta epocale in questa battaglia è stata sicuramente segnata dal passaggio dall'immunoterapia aspecifica, di cui mi sono occupato personalmente per moltissimi anni, all'immunoterapia specifica, cioè il vaccino.

Certamente se la gente comune pensa ad un vaccino per il melanoma concepito e funzionante come il vaccino antinfluenzale resterà aspramente delusa. Innanzitutto perché stiamo parlando di un vaccino terapeutico e non di un vaccino profilattico; poi perché stiamo parlando di un vaccino che va confezionato - nel vero senso della parola - su misura secondo gli antigeni di superficie espressi dal melanoma di quel preciso paziente, appunto proprio come un abito cucito addosso su misura. Steven Rosenberg del National Cancer Institute di Bethesda nel Maryland è sicuramente un leader in questo campo di ricerca. Ancora recentemente (estate 2006) ha affinato una tecnica vaccinale sulla quale studia da moltissimi anni: questa volta ha modificato geneticamente (invece che coltivarli semplicemente in presenza di interleukina-2 come faceva da anni) i Natural Killer di 17 pazienti affetti da malattia da melanoma avanzata, per poi iniettarli di nuovo negli stessi ottenendo sorprendenti risultati terapeutici.

Anche in Italia si stanno sperimentando vaccini di vario tipo per il melanoma. L'HSPPC-96 ad esempio è un vaccino sperimentato presso l'IST di Genova, l'Istituto Tumori di Milano ed il Centro Oncologico di Aviano: 2 dei 28 pazienti sui quali è stato testato hanno avuto una significativa remissione della malattia di circa 2 anni, che è comunque il triplo della sopravvivenza media da aspettarsi in una malattia da melanoma molto avanzata, e per giunta senza i devastanti effetti tossici propri della terapia con interleukina-2.

Un nuovo anticorpo monoclonale per la cura del melanoma viene sperimentato per la prima volta in Europa al Policlinico Santa Maria alle Scotte di Siena in collaborazione con altri Centri in Italia e all'estero per un totale di 160 pazienti reclutati. In questo caso la strategia è differente, in quanto l'anticorpo monoclonale deve riuscire a bloccare una proteina che fisiologicamente inibisce la produzione di T-Linfociti Natural Killer deputati a distruggere le cellule tumorali. Ovviamente aspettiamo di sapere anche cosa succederà al sistema immunitario privato di siffatto freno fisiologico.

In tutti questi casi parliamo, come ho già detto, di vaccino terapeutico e non profilattico. Inoltre si tratta sempre di terapie confezionate ad personam. Emerge da tutto ciò una necessità nuova, peculiare della nostra epoca, quella di disporre di laboratori farmaceutici in grado di produrre farmaci su misura ovvero - se mi consentite l'espressione da me già usata precedentemente - "sartorie farmaceutiche" di alto livello per confezionare superabiti terapeutici su misura. In questo senso l'Istituto Superiore di Sanità ha messo a punto nell'estate 2006 FaBioCell, la prima officina farmaceutica pubblica su misura. FaBioCell servirà proprio, a detta del Presidente dell'ISS Enrico Garaci, a confezionare strategie terapeutiche per l'immunoterapia specifica del melanoma avanzato e coinvolgerà in questo senso l'Istituto Regina Elena di Roma, l'Istituto Tumori G. Pascale di Napoli e l'Istituto Naz. Tumori di Milano. Il vaccino che viene sperimentato in questo caso è basato su cellule dendritiche del paziente (DC) attivate e coltivate con citochine ed interferoni prima di essere reiniettate nel medesimo paziente.

A Milano l'equipe del Prof. Massimo Gianni, responsabile dell'Unità Operativa di trapianto di midollo osseo (TMO) stimola prima col fattore di crescita G-CSF la comparsa nel sangue del paziente di cellule staminali CD34+. Ottenute da queste in laboratorio un buon numero di cellule dendritiche, le conserva surgelate per confezionare le dosi successive di vaccino del paziente. Infatti ogni 15 giorni le cellule dendritiche sono manipolate geneticamente in laboratorio ed attivate con il gene che codifica per la tiroxina. Caricate di tirosinasi, queste cellule da reiniettare nel paziente esplicheranno una grande capacità di stimolare ed attivare i T-Linfociti del paziente stesso. A me sembra un'intuizione geniale.

Vorrei aggiungere, per concludere, una considerazione di tipo epidemiologico. Come sappiamo il melanoma è nell'uomo la prima causa di morte al mondo per tumore della pelle, ma il melanoma colpisce anche altri mammiferi. In particolare il cane, il nostro miglior amico a quattro zampe, che se ne ammala con un'incidenza assai significativa. Ebbene esiste anche un vaccino per il melanoma del cane ed è stato allestito addirittura da circa 10 anni presso la Madison School of Veterinary Medicine dell'University of Wisconsin-Madison. Non è che funzioni ovviamente su tutti i melanomi canini, ma quando funziona (dal 10 al 15% dei pazienti a 4 zampe) si assiste alla totale scomparsa di ogni manifestazione clinica della malattia da melanoma. Anche in questo caso il vaccino è ottenuto inattivando cellule maligne del tumore dell'animale e modificandole poi con sostanze immunostimolanti prima di reiniettarle.

D: "Ho sentito dire molto spesso che, a differenza di tanti altri tumori, il melanoma risponde poco o niente alla chemioterapia; come mai veleni micidiali come quelli che si usano in chemioterapia risultano così poco efficaci nel melanoma metastatico?"

La morte programmata della cellula (ovvero apoptosi) è un meccanismo che generalmente viene perduto proprio dai tessuti tumorali, ed in modo particolare dalle cellule di melanoma avanzato. Ciò è dovuto al fatto che le cellule di melanoma esprimono la proteina Bcl-2 (presente in almeno l'80% dei casi esaminati) la quale, di fatto, blocca l'apoptosi. Il blocco avviene perché la Bcl-2 impedisce la liberazione di Citocromo-C dai mitocondri in risposta al danno indotto dalla chemioterapia. Il Citocromo-C è il vero regista dell'apoptosi cellulare che egli provoca nelle cellule attraverso un meccanismo di attivazione Apaf-1 caspasi-dipendente. Dunque il blocco del Citocromo-C da parte della proteina Bcl-2 prodotta in abbondanza dalle cellule di melanoma avanzato è la principale causa di resistenza alla chemioterapia nella malattia da melanoma.

Proprio recentemente si è provato ad associare l'Oblimersen (Genasense) alla classica chemioterapia del melanoma a base di Decarbazina (Deticene) e si è osservato un netto effetto benefico in termini di sopravvivenza rispetto ai malati di melanoma trattati con la sola Decarbazina. Questo perché, anche se l'Oblimersen agisce inibendo la produzione di Bcl-2 solo per 2-4 giorni al massimo, la finestra temporale è sufficiente a far agire - nelle ore successive all'azione dell'Oblimersen - il Deticene, che è il vero chemioterapico. Questo effetto positivo in termini di sopravvivenza è consistente soprattutto in quei malati con LDH a valori normali.

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D: "Per molti tumori esistono marcatori che consentono di individuare o almeno di sospettare la malattia tumorale: vedi ad esempio il Ca19-9 per i tumori ovarici e pancreatici, il PSA per il carcinoma della prostata ecc. Esiste un marcatore tumorale o qualcosa di simile anche per il melanoma?"

Sui marcatori tumorali devo fare una necessaria premessa. La gente è convinta che la ricerca nel sangue dei marcatori tumorali valga come screening nella popolazione "sana" e spesso ne sollecita la prescrizione (impropria) al proprio medico di famiglia magari nel momento in cui si accinge a fare esami di routine come emocromo, glicemia, colesterolo ecc. Purtroppo così non è in quanto i marcatori tumorali sono in genere troppo poco precisi per codesto scopo di screening potendo generare falsi negativi oppure falsi positivi legati ad altre patologie anche e soprattutto non tumorali. I "marcatori specifici" sono utili per monitorare l'evoluzione cioè la progressione di un tumore dopo che sia stato clinicamente accertato e diagnosticato.

Anche per il melanoma sono noti alcuni marcatori come la NSE (enolasi neurone specifica), la glicoproteina il CD44, la RT-PCR tanto per citarne alcuni, e soprattutto la Proteina S100 che io uso moltissimo per monitorare la progressione della malattia da melanoma. Purtroppo non si tratta di marcatori specifici tanto è vero che la Proteina S100 può aumentare considerevolmente anche in un traumatismo cerebro-spinale (aumenta sia nel siero che nel liquor). Scoperta già nel 1965 ma praticamente rilanciata nell'uso clinico alla fine degli anni 90, la Proteina S100 è una proteina acida chelante il calcio con un peso molecolare di 21 kilodalton composta da 2 subunità isomeriche A e B, presente in tutte le cellule derivanti dal foglietto embrionario neuroectodermico. Ricordo che i melanociti non nascono autoctoni della cute, ma vi migrano appunto dal foglietto embrionario neuroectodermico (da cui deriva il sistema nervoso) alla fine del 1° mese di gestazione (nevi di origine nevoblastica come il comune nevo composito, il nevo giunzionale, il nevo dermico ecc.) o alla fine del 5° mese di gestazione (nevi di origine melanoblastica come il nevo blu, la macchia mongolica, il nevo di Ito ecc. - chi volesse approfondire l'argomento può visionare le diapo del mio corso di Lezione sul Melanoma). Ciò spiega tra l'altro perché gli antigeni di superficie delle cellule neviche e dei melanomi siano più vicini agli antigeni di superficie delle cellule del sistema nervoso che a quelli della cute che le ospita. Ma torniamo alla nostra Proteina S100: stabilita la sua utilità come "marcatore di progressione della malattia da melanoma", essa aumenta nei casi di avanzamento del melanoma mentre solitamente una sua riduzione indica significativa risposta alle terapie. Solitamente in ogni Regione d'Italia il Centro Oncologico di riferimento effettua questo tipo di esame, che in fondo è un normale prelievo di sangue periferico. Tuttavia ho ottenuto che dal gennaio 2016 anche la mia piccola ASL effettui l'esame presso il nostro laboratorio d'analisi.